Rest - Galleria San Fedele

Una promessa di luce

Andrea Dall’Asta SJ

Come nelle icone bizantine,
il tempo della preghiera

Nella mostra presso la Galleria San Fedele, dal titolo Rest,
come parole sospese al fuori della contingenza della storia, le opere dell’artista svedese Mats Bergquist si presentano al nostro sguardo come figure enigmatiche, misteriose, come se nel silenzio potessero consegnarci un arcano segreto tenuto nascosto sin dalle origini del tempo. Già nei titoli delle opere, come Iconostasi regolare, 2009 (59 elementi lignei di diverse misure), dipinti a encausto di color nero, e Iconostasi regolare, 2017 (48 elementi di cm 17 x 13 colore bianco) sparse sulle pareti come a dar vita a una iconostasi contemporanea, oppure Icona bianca e Icona nera, il riferimento va immediatamente al mondo bizantino e russo ortodosso. Tuttavia, quale rivelazione intendono consegnarci?
Nelle antiche icone sacre, al supporto ligneo, con la sua accurata levigatura, con la successiva sovrapposizione del telo di lino a compensazione dei movimenti del legno, con la stesura del gesso sul quale è inciso il disegno, con l’applicazione del fondo oro, con le stesura dei colori ottenuti da pigmenti minerali e vegetali, si giungeva alla definizione delle linee e dei contorni, per terminare con le lumeggiature. Era un vero e proprio cammino esistenziale e spirituale che segnava non soltanto un percorso temporale dei gesti, ma un viaggio dell’anima che riconosceva gradualmente il rivelarsi dell’eterno nel nostro mondo, come se dall’interno dell’icona emergesse il divino che irrompe nel qui e ora della nostra storia.
Evocando lo stesso processo, Mats Bergquist parte da supporti lignei e con un lungo processo di stratificazioni di sottilissimi strati materici ottiene volumi che si presentano come superfici concave o convesse. Per la realizzazione dell’opera, occorre dunque un tempo, che non è mai semplicemente cronologico, ma è piuttosto quello della preghiera, del desiderio di un incontro con qualcuno a cui affidarsi, come quello dei monaci in attesa che lo spirito guidi i loro gesti per dare vita all’immagine.
La consistenza fisica dell’opera è dunque ottenuta grazie a un lento e progressivo gesto di sovrapposizione di materia (colle, gesso, pigmenti, gesti abrasivi e tecnica ad encausto su legno e successivamente su tela), fino a quando il piano dell’oggetto risulta liscio e perfettamente levigato. La superficie non presenta alcun tipo di segni, di forme imitative o naturalistiche. A una prima impressione ci troviamo di fronte a spazi di “vuoto”. È la gloria di un’assenza, il “vuoto” da cui tutto nasce?
Spesso l’artista realizza sculture rettangolari, vere e proprie icone, ordinate secondo posizioni precise ma di cui ignoriamo la regola, anche se riconosciamo tra i singoli elementi plastici un perfetto equilibrio e una profonda armonia, in una continua dialettica tra dispersione e ricongiunzione, avvicinamento e allontanamento. Come accade quando uno stormo di uccelli volteggia alto nel cielo, evocando infinite e mutevoli forme che si dilatano e si ritraggono, come in un movimento incessante di diastole e di sistole, evocando il respiro stesso del cosmo. Alcune volte riconosciamo oggetti che si manifestano attraverso forme altamente simboliche come le “daruma”, modellate con la ceramica raku, che derivano dalle antiche bambole votive giapponesi, ma che si presentano come uova misteriose, simbolo di vita e di rinascita, in attesa di dischiudersi, di aprirsi alla vita. Altre volte ancora, Bergquist si ispira alle imbarcazioni dei vichinghi, strette e affusolate, sulle quali pone ceneri a ricordo che ogni uomo è destinato alla morte. I popoli del Nord Europa le trasformavano in commoventi ex voto da presentare nei templi, prima che fossero lasciate libere al fluire della corrente del fiume, in un viaggio verso l’eternità. Oppure la scultura Scala, 2018, a encausto su legno e pigmento su ferro, rimanda alla scala di Giacobbe sulla quale salgono e scendono gli angeli, simbolo di una comunicazione tra cielo e terra, come narrato nel libro di Genesi.
Infine, un frammento di qualche imbarcazione in rovere nero, rimasta nell’acqua del Mar Baltico circa 300 anni, si trasforma in una reliquia che evoca la soglia dell’ebreo errante, sulla quale fu negata l’accoglienza a Cristo. In ogni caso, qualunque forma si presenti al nostro sguardo, intuiamo poetici volumi densi di senso, che sembrano risalire da una dimensione senza tempo, fino a raggiungere il nostro presente.
Una meditazione sulla luce,
in una dialettica “bianco/nero”

Tutta l’opera di Bergquist sembra incentrarsi sulla luce. Grazie a una tecnica raffinata, la luce non sembra dipinta, quanto piuttosto captata, meglio, fissata direttamente sul supporto, come se fosse attratta dalla superficie per poi irradiarsi nello spazio. Da questo diffondersi della luce nascono le opere “bianche”. All’inizio, c’è una tavola di legno, scelta con precisione, cura. Poi, più colori sono sovrapposti sul supporto, circa una ventina, dal bianco al grigio, come se la tavola crescesse gradualmente nel tempo. In seguito, abradendo la superficie, Bergquist si pone alla ricerca del bianco originario che è tuttavia stato contaminato dalla sovrapposizione degli strati di colore, secondo una scala di grigi. Il monocromo bianco emerge così come da un’apparizione, venendo lentamente e gradualmente alla luce. Non è più quello originariamente steso sulla superficie, ma esce come da un grido, da un dolore, affinché la luce possa affiorare. Non c’è luce, senza sofferenza. La superficie abrasa si presenta in questo modo come una superficie muta, meglio come un’icona bizantina le cui forme sono state cancellate dai baci della moltitudine dei fedeli che nel tempo hanno lasciato solo pallide tracce dell’immagine, per farne emergere le velature più profonde, fino a raggiungere il supporto. Non si tratta dunque di assenza di forma. È come se la forma fosse stata cancellata da un bisogno di amore, di essere accolti dal silenzio discreto di qualcuno disposto ad amarti. Quel bianco è un’apparizione, una ierofania.
Nel caso dei lavori in cui il colore è il nero, l’artista usa un pigmento puro. Le sue opere sono qui ispirate alle madonne copte dipinte a encausto scampate nel Monastero ortodosso del Monte Sinai alla furia iconoclasta dei primi secoli della Chiesa, che i fedeli accarezzavano fino a farle diventare nere, quasi monocrome. Bergquist si pone alla ricerca del nero assoluto, di uno spazio vuoto. Le superfici nere si fanno allora soglia, limite, linea di confine, come nelle tre tavole Bethlehem (129×90 cm), 2008, che richiamano simbolicamente le tre porte sacre di accesso al luogo della natività di Cristo, che oltrepassiamo solo chinando la testa.
La dialettica bianco/nero sembra rimandare al suprematista Kazimir Malevich, nel suo intento di realizzare le icone del tempo a lui contemporaneo, attingendo al cuore della spiritualità russa. Di fronte alle opere dell’artista svedese, come non ricordare il Quadrato nero su fondo bianco,1915? Nero e bianco, sono i due colori che esprimono per l’artista russo il massimo della tensione cromatica e spirituale. Tuttavia, se in Malevich il quadrato nero proteggeva dalla presenza accecante del divino del quadrato bianco, in quanto la visione dell’eternità deve essere tutelata, suggerita, evocata, in Bergquist nero e bianco, invece di sovrapporsi sembrano piuttosto richiamarsi, in una dialettica continua, come se l’uno non potesse esistere senza l’altro.
Se il nero e il bianco sono per Malevich i colori relativi alla forma e all’energia, per Bergquist i due colori sembrano piuttosto riferirsi alla dialettica vita/morte, l’uno alla luce che s’irradia e si diffonde dalle superfici perfettamente levigate, l’altro a uno spazio di vuoto in attesa di riempirsi di senso. Così se il nero è il richiamo alla terra che si apre sul divino, come in una sorta di attesa, il bianco, come nelle antiche icone orientali, si fa emanazione stessa del divino, la cui luce diventa superficie. Talvolta queste sculture tracciano un sentiero, come nell’opera pavimentale Sentiero, 2015, altre volte vi riconosciamo delle impronte, come quando camminiamo sulla neve, lasciandovi tracce del nostro passaggio, come nei cosiddetti “Inginocchiatoi”, concepiti come superfici bianche sulle quali sembrano appena passati degli angeli, o come sgabelli creati per creature angeliche. Perché tutta l’esperienza umana è abitata da una speranza che si fa strada nel dolore, da un desiderio continuo di rialzarsi e di sollevarsi, anche se poi noi inevitabilmente cadiamo…
In realtà, se osserviamo più attentamente le opere “nere” di Bergquist, ci accorgiamo che non si tratta del colore nero quanto piuttosto di un viola molto scuro, cupo, che per l’artista dà un senso maggiore di vuoto. È un viola ipnotizzante, la cui dialettica con il bianco sembra dare vita a una meravigliosa sinfonia attraversata da silenzi ancora più intensi e profondi.
La superficie
si fa “cielo”

Ai lavori bianchi e a quelli “viola”, l’artista svedese affianca infine “sculture” di colore azzurro, ottenute attraverso materiali preziosi, come turchesi o lapislazzuli. Anche queste opere sembrano abitate da un’attesa, da una promessa. Si presentano come squarci di cieli o mantelli di neve che stanno per sciogliersi o si sono appena sciolti. Le superfici si fanno qui sottili variazioni cromatiche, sensibili al movimento della luce, dando vita a straordinari effetti cangianti, che rimandano alle distese innevate del Nord Europa e alle sue luci fredde e silenti, dischiudendo spazi metafisici. Si presentano come porte che dall’al di là ci consegnano una speranza da accogliere.
Restiamo ancora nel silenzio, come se le superfici dischiudessero la promessa di una rivelazione, quasi fossero cortine, veli o diaframmi di meditazione in procinto di svelare l’invisibile. Se la luce è stata interpretata nella fede cristiana come presenza del divino che illumina e trasfigura ogni realtà umana, le opere monocromatiche di Bergquist ci aprono a un mondo di luce. Contemplando quelle “immagini senza immagini”, ci lasciamo illuminare da quella luce trascendente, divina e assoluta, perché questa rischiari di senso le nostre parti più intime e profonde, traghettandoci dalla nostra realtà a un mondo ultraterreno. Il riposo (rest) di questa contemplazione può farsi allora preghiera, ascolto di quanto vive nel più profondo della nostra storia.

Andrea Dall’Asta SJ

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