View Magazine - nr.08, 2004

Mats Bergquist – Less is more

Stefania Portinari

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Uno svedese a Marostica. Mats Bergquist è un artista schivo e spirituale, che gioca la sua partita a scacchi col tempo lento del compimento delle sue opere in uno studio monacale e luminoso. La metodologia antica e intensamente ascetica che i suoi lavori comportano richiama modi di paesi lontani: quelli della sua prima giovinezza trascorsa in Russia, in Polonia e in Cina, al seguito del padre diplomatico e della madre pittrice. La fascinazione per le icone e per la loro storia religiosa e politica così contrastata, una reverenza fatale per la passione che esse suscitano e gli studi di zen giapponese intrapresi con rigore e convinzione hanno portato alla creazione di una sua poetica personalissima, che pur richiamandosi all’astrattismo e al minimalismo di una certa temperie artistica del dopoguerra soprattutto nordica e americana, riflette a fondo le scelte difficili e i significati immateriali messi in atto dall’artista. Bergquist crea infatti non-immagini, icone contemporanee senza la necessità di figure, presenze che sarebbero obsolete in conseguenza di un’iconoclastia da tempo moderno che rarefà alle estreme conseguenze la rappresentazione visiva. Delle icone e della loro valenza sacra rimane il procedimento realizzativo e la traccia di una estrema dedizione amorosa, come in un antico racconto svedese che dice di Madonne dipinte talmente consumate dai baci dei fedeli al punto da scomparire, divenire superficie nera, assenza di segno e colore, tavola vibratile e valente in funzione del suo significante e non più del significato iconografico iscritto in superficie. I lavori dell’artista sono perciò operazioni molto faticose di trattamento dei materiali che prevedono l’utilizzo rigoroso di sostanze scelte seguendo la tradizione, la stessa che si ritrova nelle ricette del Cennini e dei monaci russi: i supporti in legni pregiati come il pero o il ciliegio, fissati con incastri a coda di rondine senza l’ausilio di chiodi o collanti chimici, secondo i metodi delle tavole medievali per trattenere i movimenti del legno che, in quanto elemento vivo, muta in base all’umidità, sono poi rivestiti in tela di lino belga e impregnati di olio di lino, colla di coniglio, gesso e pigmenti. Le superfici lignee trattate a mano fino allo sforzo massimo della fatica, sottoposte a un durissimo labor limae per essere domate in forme lievemente concave o convesse, vengono ricoperte da quattordici strati di colla, gesso e formalina, fino alla creazione di una superficie bianca e opaca, a cui il pittore darà vita attraverso la laboriosa applicazione di tempera ad encausto.

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Precisione, lentezza, cura e noia, carta vetrata e nuvole di polvere sono i componenti di un lavoro la cui base, prima ancora di essere luogo di pittura, è artigianato pregiato, come nelle botteghe russe di icone descritte da Gogol, come nell’arte dei pittori gentiluomini giapponesi che riproducevano lo stesso paesaggio per tutta la vita. Per le sue opere Mats Bergquist predilige l’impiego di colori primari, essenziali e diretti come lo è la sua personalità. Compaiono in particolare il bianco e nero che, come egli afferma, appartengono specificatamente all’immaginario protestante in quanto conduttori di rigore e senso di purezza, di richiamo allo spazio interiore e al misticismo. Anche il celeste, elemento cromatico monocorde e divino, è puro riferimento allo spazio del sogno e quindi simbolo di una realtà altra e intangibile, estranea alla contingenza del mondo. Non in contrasto, ma a complemento, le superfici appena aggettanti o lievemente incavate del supporto suscitano alla percezione dell’occhio una sensazione tattile, fornendo un’anima più vibratile al monocromo assoluto. Così Le Guide, opere modulari ispirate a Stalker diTarkowsky, sono come la memoria di viaggi lunghissimi tra Svezia e Russia ma anche parte metaforica della strada della vita: sono una “storia di misure”, come le più recenti Miles, che accostate idealmente le une alle altre, come stazioni di un percorso, rendono il modulo matematicamente misurabile di un miglio. L’artista, cresciuto in luoghi in cui la religione èimportante nella vita quotidiana della gente, ha portato in dote al suo mestiere l’attitudine alla meditazione, a una particolare declinazione serafica ed enigmatica delle apparenze. La fiducia nella spiritualità dell’opera è essenziale nella sua pratica, secondo la prassi del modernismo che da Malevich a Mies van der Rohe agli astrattisti americani degli anni Cinquanta impregna la corrente più inquieta ed estremista dell’astrattismo e della scomparizione dell’immagine. Se indubbiamente anche l’architettura è per lui fonte di ispirazione, dalla sua tesi universitaria sul valore dell’ornamento all’interesse per gli effetti di bombatura ed usura dei materiali, alla collaborazione con architetti e designers per progetti in ambienti d’interni e ville, i richiami ai maestri della storia dell’arte sono finemente sottili ma persistenti: il suo istinto remoto e medievale anela anche alla luminosità di Rothko, al rigore di Donaid Judd, Barnett Newmann e David Tremlett, ricerca le concavità di Lo Savio e i gesti dominatori dello spazio di Franz Kline e Twombly. E’ lì che emerge la “qualità umbratile” delle sue tavole di cui parla Bruno Corà o “l’autonomia della realtà dell’opera che si fa spazio” intravista da Cecilia Casorati dell’Accademia di Roma, due tra gli importanti testimoni critici che hanno accompagnato l’attività di questo pittore colto e cosmopolita, oltre che poliglotta, che dopo gli studi alla Scuola d’Arte in Svezia e all’Atelier 17 di Hayter a Parigi ha proseguito la conoscenza dell’arte all’Università di Stoccolma e che ora è seguito dalla galleria milanese Grossetti, dopo aver esposto molto all’estero, in particolare in Svezia e in Francia, ma anche a Roma, a Milano, alla Rocca Paolina di Perugia.

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