Art Tribune - 2013

Elogio dell’ombra

Stefania Giazzi

Il titolo della mostra evoca la concettualità del lavoro di Mats Bergquist, la sua ricerca di silenzio, di vuoto e velatura del visibile. Nelle sue opere, che nascono dal legno, materia viva accuratamente avvolta da tele e ricoperta da vari strati di colle e completate ad encausto, vi è l’intento di celare i segreti della materia e di sublimarne le qualità attraverso il lungo processo che definirà l’identità dell’opera. Identità che solo l’artista conosce intrinsecamente, creata dai complessi passaggi di trasformazione in cui Bergquist fonde la sua natura meditativa con il bisogno di spiritualità che trovano l’apice nella purificazione dell’elemento e nell’assenza del colore che ha precedentemente caratterizzato le sue opere, colore di cui si sono spogliate e liberate per giungere all’essenza del bianco e del nero.

 

Jestem, io sono, io esisto, è il mantra che accompagna il suo lavoro. L’artista è la sua opera e la sua opera è l’artista. Nella creazione dei monocromi riproduce le regole dell’universo, lo yin e lo yang, l’oscillazione dello stato delle cose: pieno e vuoto, concavo e convesso si alternano nei dittici e laddove l’artista, nella evoluzione della sua opera, opera un taglio, una scissione, crea un’ombra che forma una nuova vibrazione, a volte senza modificare la geometria della composizione, altre facendo nascere da più segmenti una nuova geografia, come accade nella Via Lattea. Nella composizione di alcune opere Bergquist inserisce nel bianco – mai brillante, quasi opaco – una nicchia di nero, una sospensione della luce, simile ai toko no ma, le nicchie che in Giappone vengono poste nel muro della stanza principale, attigua al giardino, che quasi sempre null’altro contengono se non il vuoto e la penombra, perfetti complementi della meditazione. Da questo punto di vista orientale, Bergquist attinge per la sua arte.

 

Nel Libro d’ombra di Tanizaki, lo scrittore afferma che (attorno al 1890) “ancora le case si costruivano come vasi per l’ombra”e più avanti, interrogandosi sull’importanza dell’ombra per gli Orientali, afferma che “v’è forse, in noi Orientali, un’inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze della vita. Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, e senza repulsione”. Non vi è alcuna repulsione per l’ombra da parte di Bergquist ed anzi conoscendo le leggi temporali cui siamo soggetti, attraverso le silenziose molteplici sculture, i daruma, icone propiziatorie, porge una silenziosa invocazione. Talvolta ci sorprende con l’apparizione del rosso che subito ci riconduce però al colore delle iconostasi, i luoghi in cui si celebra il rito, il sacro, spazio di delimitazione presente nelle religioni sia occidentali che orientali. Alle volte le superfici si tingono di un delicato azzurro, colore vicino all’assoluto, che indica lo spazio che delinea terra e cielo, umano e divino. Sospensione e silenzio. Elogio dell’ombra, questa è l’opera di Mats Bergquist.

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