ilpickwick.it - 2016

Bergquist e gli Encausti: “Ashes to Ashes”

Roberta Andolfo

La ricerca di un legame fra cose apparentemente opposte, luoghi presumibilmente troppo lontani per potersi assomigliare, origini differenti, continua ad essere sostanza pulsante della ricerca artistica. Nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, all’interno del dialogo da lungo tempo aperto fra le opere antiche e quelle contemporanee, s’inserisce quest’autunno, sino alla fine di ottobre, la voce di Mats Bergquist.

L’opera dell’artista svedese risiedente fra l’Italia e la sua terra, si ripartisce così in tre momenti di tempo, che scandiscono l’ingresso del visitatore partendo dall’atrio con le opere Via Lattea ed Architrave, proseguendo nel giardino con le forme ovoidali delle Daruma e conducendo sino alla sala al pianterreno, all’interno del porticato, dove l’intero vano bianco è occupato da altre Daruma, dalla Votis Kepp, una struttura sospesa, e dalle Venus, riquadri neutri dalla convessa linearità. Procedendo a ritroso, dalla sala fino all’ingresso, ci troviamo dinanzi al candore della stanza, diversamente modulato in rapporto agli elementi scurissimi costituiti dalle opere. Sul pavimento un tappeto di cenere “lavica” sfrangiata entro cui si dispongono, come frutti su di un campo coltivato, le opache e nere Daruma in ceramica raku.

Più si entra nello specifico della fertilità materica e spirituale del bacino mediterraneo con la sua terra scura forgiata dai vulcani (i morbidi riquadri richiamano la forma del ventre di una donna incinta), più l’artista sposta il percorso verso la globalità senza confini delle origini del pianeta Terra. In fondo l’essenzialità della scena è un ricalcare anche il vuoto e la vastità, alle volte pressoché senza limiti, di certi avvincenti ed austeri paesaggi dell’estremo nord d’Europa, in un’ambientazione maestosa e priva del rumore dell’uomo, simile a ciò che tutte le terre erano agli albori. L’imperfetto cerchio nero che è vuoto intagliato nel bianco, la barca ricolma di piccole montagne di cenere, la scultura di forma ovarica sono come prodotti della natura e ad un tempo componenti partorite dalla mente, e sanciscono il legame tra le due dimensioni e la derivazione dell’umano dal naturale. Tutto è ancor più allineato alle pitture e sculture esposte nel museo, attraverso l’antichissima tecnica dell’encausto utilizzata da Bergquist, quella desueta lentezza del procedimento, l’accuratezza che però non prevale sul risultato “minimalista” che le opere raggiungono nel loro aspetto definitivo, ma sosta ad un livello nascosto che è una scelta filosofica dell’autore ed alla fine resta parte integrante di quella sua estetica.

Nella Via Lattea, come asettico ma familiare corridoio di una futuristica nave spaziale che si ispiri alla direzionalità delle stelle, e nell’architrave compattato, l’ascesa concettuale supera la tangibilità della terra, restando legata all’opera dell’uomo attraverso quest’ultima, antichissima forma architettonica quasi primigenia, perno della civiltà, cifra stilistica e costruttiva dei Greci. Il simbolo dell’uovo, così tanto partenopeo, è spogliato della sua mera essenza iconica per l’impressione che in esso non sia così lontano il ribollire della vita (il guscio rotto), e per quanto abbastanza abusato nella sua levigata versione contemporanea, si distingue tuttavia da quelle uova aliene che pervadono la nostra immaginazione di incalliti cinefili, perché perfettamente in sintonia con il crudo ed impressionante scenario terrestre di un tempo lontanissimo, da cui tutto ciò che conosciamo è sgorgato, frutto dell’ambiente naturale e dunque premessa dell’umano.

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